mercoledì 30 giugno 2010

Scene di vita



Ahmedabad (India). Tre sacerdoti indù immersi in pentoloni d'acqua chiedono a Varun, il dio della pioggia, l'arrivo dei monsoni. I meteorologi locali prevedono grosse precipitazioni fra esattamente due giorni.
Foto di Amit Dave (Reuters).

martedì 29 giugno 2010

Disubbidire agli ordini

La giustificazione dei soldati tedeschi che massacrarono milioni di ebrei e di altri innocenti durante la seconda guerra mondiale fu “abbiamo ubbidito agli ordini”. Tutti concordiamo che gli atti intrepidi, come farsi uccidere pur di non collaborare alle esecuzioni, sono lodevoli ma non obbligatori. Inoltre, dubitiamo che al posto di quei soldati avremmo saputo comportarci meglio.

Tuttavia, la vita quotidiana ci informa che la gente non ha una propensione gigantesca a ubbidire. Anche il bambino più imbelle respinge una pappa che non gli piace. Se gli ordinate di mangiarla si impunta. Se lo minacciate può darsi che inizi a mangiare, ma senza rinunciare a manovre subdole di boicottaggio: una lentezza esasperante, sbrodolamenti della pappa, a volte il rovesciamento accidentale della scodella.

È chiaro che i soldati di Hitler ricorsero di rado a manovre di questo tipo, altrimenti non sarebbero riusciti a rastrellare milioni di ebrei in tutta Europa in pochi anni. Ricordo che nel frattempo la Wehrmacht combatteva in Russia, bombardava l’Inghilterra, resisteva agli sbarchi americani, teneva sotto il tacco i francesi, gli italiani e il resto del continente. Agli ebrei dedicava giusto il tempo libero.

Alcuni commentatori ne deducono che evidentemente i tedeschi sono più ubbidienti degli altri popoli. Laurence Rees, un giornalista e storico inglese, osserva che però i leali servitori del Führer erano capaci di disubbidire quando si trattava di rubare:

"Ad Auschwitz [...] non c’è nessun caso noto di SS processate per avere rifiutato di prendere parte alle esecuzioni, mentre c’è abbondanza di documenti che mostrano che il vero problema di disciplina - dal punto di vista dei vertici delle SS - era il furto [ai danni degli ebrei o di altri]. Sembra perciò che i membri comuni delle SS fossero d’accordo coi vertici nazisti che uccidere gli ebrei era giusto, ma non con la politica di Himmler di impedire loro di profittare individualmente del crimine. E le pene per una SS colta a rubare potevano essere draconiane - quasi sicuramente peggiori che per essersi rifiutata di prendere parte attiva alle esecuzioni" (fonte).

A discolpa delle SS, sottolineo che c’è differenza fra rubare e rifiutare di prendere parte a un’esecuzione. Un ladro spera di non essere scoperto, mentre chi rifiuta di entrare in un plotone di esecuzione deve farlo apertis verbis, condannandosi a un castigo sicuro. Il paragone pertinente è tra il furto e le manovre di boicottaggio che i soldati avrebbero potuto intraprendere nell’ombra. In ogni caso se i soldati tedeschi fossero stati sinceri non avrebbero detto “abbiamo ubbidito agli ordini” ma “abbiamo ucciso gli ebrei perché i nostri superiori ci avrebbero fatto fucilare se ci fossimo insubordinati; sapevamo che lo avrebbero fatto anche se ci avessero sorpresi a rubare, ma in quel caso correvamo il rischio”.

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martedì 22 giugno 2010

Chiudete qualcuno in una stanza a confrontare teorie e fatti, e ne uscirà con un motore a scoppio

Nell’autunno del 2006 la stampa americana pubblicò una serie di mail scritte dal senatore Mark Foley, dove tentava di sedurre alcuni “congressional page” – che sono studenti delle scuole superiori che lavorano in stage al Congresso. In seguito emerse che Foley aveva avuto relazioni sessuali con più di un “paggio”, anche se solo dopo il termine del loro programma.

Lo scandalo fu terribile, sia perché i destinatari delle mail erano minorenni, sia perché Foley apparteneva ai Repubblicani, il partito conservatore americano, difensore furibondo della famiglia tradizionale basata su un uomo e una donna. In passato Foley aveva dichiarato a un intervistatore, che gli aveva chiesto se fosse omosessuale (la voce girava), che trovava l’ipotesi “disgustosa”. Dopo la pubblicazioni delle mail, e tenui tentativi di giustificarsi, Foley si dimise da senatore.

Episodi simili sorprendono sempre. Viene da dire a Foley: se eri un omosessuale, perché militavi in un partito che disprezza le persone come te? Oppure: se credevi nella famiglia tradizionale, perché corteggiavi giovani maschietti?

La fonte della sorpresa è la facilità con cui l’ipocrita riesce a tenere insieme idee e azioni in conflitto fra loro. Sa cosa sta facendo, eppure lo fa. Dice una vecchia battuta che l’ipocrita “è il tipo di politico che può abbattere una sequoia, salire sul tronco e fare un discorso a favore della conservazione della natura”. Mentre per mentire occorre attenzione, l’ipocrisia ha qualcosa di spontaneo.

Teorie costose e non costose

Avrete notato che il prossimo fatica a cambiare idea. Se gli provate che i suoi ragionamenti sono illogici, o gli squadernate davanti i fatti che gli danno torto, non dice “che sciocco, hai ragione” ma vi guarda in silenzio come se pensasse che l’idiota siate voi.

Questa rigidità di pensiero affligge non solo gli ignoranti, ma anche gli intellettuali e gli scienziati. La storia è piena di teorie false che sono rimaste scritte nel marmo per secoli nonostante si potesse accertare la loro falsità con poca fatica. Un caso istruttivo è la teoria della caduta dei pesi formulata da Aristotele nel IV secolo a.C., secondo la quale un corpo cade con una velocità proporzionale al peso. Corpo più pesante, caduta più rapida: suona bene, tanto che diciamo ancora “è caduto come un piombo” di chi cade in modo repentino.

L’esperimento necessario per accertare che questa teoria è falsa richiede non più di un pomeriggio di lavoro e nessuna tecnologia moderna. “Proporzionale al peso” implica che se un masso A è dieci volte più pesante di un masso B, e fate cadere i due massi contemporaneamente, il masso A tocca terra quando il masso B ha percorso solo un decimo del tragitto. Una differenza vistosa. Un dotto interessato a controllare la teoria di Aristotele avrebbe potuto ordinare a uno schiavo di portare due massi in cima a una rupe e buttarli giù insieme. Rimasto comodamente a valle, il dotto avrebbe potuto vedere a occhio nudo se Aristotele aveva ragione o no.

Per circa novecento anni tutti i dotti insegnarono nelle scuole la teoria aristotelica; nessuno fece l’esperimento.

A rompere il ghiaccio fu Giovanni Filopono, un matematico alessandrino del VI secolo d.C. In un commento alla Fisica di Aristotele, Filopono descrisse un esperimento di caduta pesi in cui aveva osservato che il peso leggero non faceva alcun ritardo. I dotti lessero, annotarono la posizione di Filopono e continuarono a insegnare la teoria di Aristotele.

Non ci furono esperimenti per altri settecento anni.

Nel 1300, il filosofo Thomas Bradwardine e i suoi colleghi di Oxford tentarono di riaprire la questione, avanzando una teoria del moto in cui la velocità di caduta non dipendeva dal peso. Non è chiaro se Bradwardine e gli oxfordiani abbiano condotto esperimenti sistematici, però sappiamo ciò che fecero gli altri dotti: seguitarono a ripetere la teoria tradizionale.

Ma Aristotele aveva i secoli contati. Nel 1500 si diffuse nelle università europee il concetto rivoluzionario che per scoprire le leggi di natura occorrono prove e misurazioni. Erano i primi vagiti della scienza moderna. La teoria aristotelica della caduta dei pesi fu tra le prime a finire sotto il tiro degli sperimentatori, proprio perché facilissima da controllare. All’improvviso, nelle università europee fu tutto un cadere di massi e sfere. Ricorderete l’episodio di Galileo Galilei che, radunato un gruppo di aristotelici sotto la Torre di Pisa, fece cadere dalla vetta due sfere di peso diverso. Gli aristotelici videro che le sfere toccavano terra nello stesso istante, o quasi (c’è un divario dovuto alla resistenza dell’aria).

Gli storici moderni sostengono che l’episodio è apocrifo ma, anche se lo fosse, è in linea col carattere di Galileo, che aveva una vena per le confutazioni spettacolari degli errori altrui. Ciò non gli creò mai un clima favorevole attorno. Sempre a Pisa, Galileo fece un esperimento in Duomo per mostrare che ogni oscillazione di un pendolo ha la stessa durata, nonostante l’illusione che le durate si abbrevino man mano che il pendolo si arresta. Poi puntò un cannocchiale verso la Luna e svelò che era piena di valli e crateri, a dispetto di Aristotele che aveva scritto che i corpi celesti sono lisci. Non contento, sostenne che i dati astronomici suggerivano che fosse la Terra a girare intorno al Sole, e non l’opposto come diceva la Bibbia. Alla fine Galileo fu incarcerato.

Nel 1600, con Isaac Newton e la scoperta della gravità, la teoria aristotelica della caduta dei pesi entrò senza rumore nelle curiosità storiche.

Questa teoria poté durare tanto a lungo perché sposarla non era costoso. Il dotto antico che la insegnava non aveva a soffrire per il suo errore. Intanto, è rarissimo che i fatti che smentiscono questa teoria si presentino da sé. Quante volte vi capita di vedere pesi che cadono in coppia? Potete giusto imbattervi in due mele che si staccano dal ramo nello stesso istante ma, siccome non c’è grande differenza di peso fra le mele, non vi stupisce che arrivino a terra insieme. Perciò, quando il dotto diceva “corpo più pesante, caduta più rapida” non incontrava mai ascoltatori che avessero notato il contrario e gli dessero dello sciocco, ciò che già sarebbe stata una conseguenza dolorosa.

Inoltre, la teoria aristotelica mancava di applicazioni ingegneristiche, perché non c’erano oggetti utili dove si sfruttasse la caduta dei pesi. Al massimo un principe poteva chiedere al dotto di disegnargli una catapulta, ma anche in questo caso l’importante era che lanciasse il proiettile lontano, non quanto fosse veloce. Le uniche occasioni per vedere oggetti di pesi diversi in caduta libera erano gli assedi ai castelli. Un soldato che risaliva le mura avrebbe potuto accorgersi che le pietre, grandi e piccole, rovesciate dai difensori sui merli scendevano verso di lui alla medesima velocità. Immagino non fosse ciò che ricordava dell’episodio.

Quando invece una teoria rischia di danneggiarci abbiamo cura di esaminare i fatti. A riprova, gli antichi fecero conquiste precoci in tutti i campi utili del sapere. Prendete gli edifici. Un architetto antico sapeva che una teoria falsa sugli archi lo avrebbe portato a progettare ponti che crollavano al passaggio di un carro pesante. Una teoria falsa sulle volte gli avrebbe fatto disegnare case dove il pavimento si apriva sotto i piedi del proprietario salito al primo piano. Perciò, l’architetto era incentivato a fare prove scrupolose. Risultato: le costruzioni antiche erano solidissime. Quando le studiamo, ci accorgiamo che gli architetti avevano imparato a calcolare le spinte laterali degli archi e delle volte con precisione meravigliosa. Il nostro stupore per gli acquedotti romani, le piramidi d’Egitto, le mura a secco dei Maya, le stesse cattedrali gotiche medievali è tale che qualche fantarcheologo dice che “sono edifici troppo avanzati per le civiltà che li hanno prodotti”, quasi fossero l’opera di una mano aliena. In realtà, questi edifici dimostrano solo quanto un architetto può imparare per semplice prova ed errore quando l’errore lo espone alle reazioni inferocite dei committenti.

L’amore per le nostre opinioni che non ci causano costi sembra un tratto innato del nostro carattere. È come se la natura si fosse trovata a scegliere se donarci l’uno o l’altro di questi due schemi di ragionamento:

Schema 1.
“Uhm, la teoria X suona bene. Ora controllerò tutti i fatti rilevanti. Se confermano X, allora: X. In seguito, studierò qualunque fatto nuovo si presenti e correggerò X dove necessario”.

Schema 2.
“Uhm, la teoria X suona bene. X!”.
Il giorno dopo: “X!”.
Due giorni dopo: “X!”.
Tre giorni dopo: “X!”.
Ecc.
Dopo un incidente doloroso: “Non X”.

Ha scelto lo Schema 2, ed è probabile che sia stata saggia. Se i nostri antenati delle savane avessero avuto lo Schema 1, e quindi l’istinto dello scienziato che vuole sindacare ogni teoria, avrebbero sprecato energie preziose trasportando massi in cima alle rupi per scoprire verità che all’epoca non servivano a niente.

Sul piano evolutivo, le uniche convinzioni meritevoli di un’analisi empirica erano quelle pericolose per la sopravvivenza. Se un antenato sviluppava la teoria errata che i lupi di notte dormono, occorreva solo che fosse capace di abbandonarla quando, durante una passeggiata al chiaro di luna, si imbatteva in occhi luminosi che lo scrutavano fra le fronde. Lo Schema 2 ci conferisce questa capacità. Tutti abbiamo sperimentato come la mente si rischiari dopo una cattiva sorpresa.

La rivoluzione della scienza moderna fu di passare allo Schema 1. Gli scienziati si misero a fare per metodo ciò che nessuno faceva per carattere, occuparsi delle evidenze innocue. Nel breve termine questo metodo è faticoso, ma nel lungo termine produce teorie vere che si tramutano in applicazioni pratiche. La scienza moderna fu la scoperta che se chiudete una persona meticolosa in una stanza a confrontare teorie e fatti, a un certo punto esce con un motore a scoppio.

L'inconsapevolezza di sé

Se occuparsi delle evidenze innocue non fosse tanto innaturale, la scienza moderna non sarebbe nata tardi, dopo millenni di civiltà per altri versi ammirevole. Gli antichi innalzavano edifici complessi, attraversavano i mari, scrivevano poemi commoventi, però trascuravano i fatti ogni volta che potevano.

Noi moderni continuiamo a farlo. La scienza è un metodo di ragionamento che adottiamo in ambiti speciali, ma per il resto il nostro carattere è ancora quello degli antenati delle savane. Gli scienziati amano attribuirsi una passione infuocata per la verità oggettiva, ma appena si staccano dalla postazione di lavoro lo Schema 2 torna a invaderli e suscita in loro fantasie tenaci sulla moglie che li tradisce e i colleghi che complottano in università. Al di fuori della ricerca, le nostre abitudini sono queste:

  1. ci creiamo convinzioni a naso;
  2. evitiamo di controllare che rispettino i fatti;
  3. se qualche rompiscatole ci annuncia fatti a sfavore ci irrigidiamo, quasi ci avesse attaccato sul piano personale;
  4. se i fatti a sfavore sono grossi, e il rompiscatole li piazza proprio davanti ai nostri occhi, rimuginiamo su come negarli;
  5. se, dopo avere resistito ai fatti per anni, questi fatti diventano dolorosi abbandoniamo le nostre convinzioni;
  6. subito dopo, ci mettiamo a irridere chi le mantiene.

L’ipocrita è un essere umano normale che si è fatto una teoria dove figura come campione del bene. Quando parla di valori, si protesta nostro amico, si dichiara animato da sentimenti puri, è convinto di essere nel vero. La teoria gli piace, quindi evita di controllare se le sue azioni reali la confermino.

A volte queste azioni sono del tutto invisibili all’ipocrita. È il politico che abbatte la sequoia per tenere un comizio a difesa della natura.

Altre volte l’ipocrita si dimostra informato delle sue azioni ma le razionalizza. È la madre antiabortista che aiuta la figlia ad abortire ma invoca la “situazione” - come se ogni madre che abortisce non ne avesse una. È Voltaire che esorta i ginevrini a perseguitare uno scrittore perché la “blasfemia” e la “sedizione” non meritano tutela – come se questi non fossero gli argomenti eterni degli intolleranti religiosi e politici.

L’unico problema dell’ipocrita è proteggere la sua teoria di sé da fatti dolorosi, ed è per questo che nasconde le sue malefatte. Non se ne vergogna, ma intuisce che il pubblico, come dire, potrebbe fraintenderle. Se le malefatte vengono a galla, l’ipocrita reagisce in funzione del numero dei critici. Se sono pochi, o uno solo, l’ipocrita resiste, come fece Voltaire quando Rousseau lo accusò di fare lega con i devoti notabili di Ginevra. Se l’indignazione è generale, come capitò al senatore Foley, l’ipocrita prende coscienza di sé e si avvede che le sue azioni sono indifendibili. Dice “solo ora mi rendo conto”, e in ciò è sincero: la punizione rende dolorosi, e quindi all’improvviso visibili, i fatti che erano sempre stati sotto i suoi occhi.

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venerdì 18 giugno 2010

martedì 15 giugno 2010

Ipocrisia, sottomissione, menzogna

“Ipocrisia” viene dal greco antico “hypokrisis”, che è “l’azione di chi recita una parte sul palcoscenico”. L’ipocrita è etimologicamente un attore. Tuttavia, non chiamiamo ipocriti tutti coloro che recitano, perché riconosciamo che alcune finzioni sono tristi necessità della vita più che tentativi di ingannare il prossimo. In particolare, non chiamiamo ipocrita chi si sottomette alle attese sociali. Davanti a capi, sconosciuti sospetti, amici che non vogliamo offendere, possiamo pronunciare omaggi di circostanza a valori che non abbiamo mai seguito. Lo facciamo senza calore e nelle forme più brevi. Se queste recite diventano quotidiane – sul lavoro, in famiglia – ci mettiamo a sognare un futuro dove potremo essere noi stessi.

Al contrario, l’ipocrita è attivo e felice. Attivo perché declama virtù che nessuno gli chiede di appoggiare; anzi, spesso l’ipocrita sa di deludere i suoi interlocutori, per esempio quando rimprovera loro qualche peccato. Felice perché quando parla ha l’aria di essere soddisfatto di sé.

Non chiamiamo ipocrisia neanche la menzogna pura, che mira a imbrogliare. Il finto impiegato dell’azienda del gas che estorce soldi alla vecchietta ignara è un furfante, non un ipocrita. Raggiunti i complici, tornerà nei suoi panni e riderà della vittima.

L’ipocrita invece è in recita permanente. Ciò che dice, lo dice sempre e lo dice a tutti, compreso sé stesso. Se volete, l’ipocrita perfetto è quello che continua nelle sue dichiarazioni anche mentre i suoi atti lo smentiscono. I medici riferiscono di donne antiabortiste che militano in gruppi “pro-vita” ma chiedono di abortire quando incappano in una gravidanza indesiderata, o aiutano le figlie a farlo. A volte l’esperienza le conduce a rivedere le loro idee sull’aborto, altre volte no. Prendo questo episodio da un articolo di Joyce Arthur, un’attivista abortista canadese. Il narratore è un medico di una clinica americana dove si praticava l’aborto:
[N]ell’area di Boston, Operation Rescue e altri gruppi picchettavano regolarmente le cliniche e molti di noi, per mesi, dovettero andare ogni sabato ad aiutare le donne e il personale a entrare. Come risultato, conoscevamo di persona molti degli “anti”. Una mattina, una donna che era stata una regolare capo-picchetto venne alla clinica con una ragazza che sembrava avere 16-17 anni, e che era chiaramente sua figlia. Quando la madre mi raggiunse un’ora dopo, non potei fare a meno di chiederle se la situazione della figlia le avesse fatto cambiare opinione. “Non mi aspetto che possa capire la situazione di mia figlia”, rispose con rabbia. Il sabato seguente era di nuovo lì, implorando le donne che entravano in clinica di “non uccidere i loro bambini”.

Dato che la fonte è di parte non sono certo che l’episodio sia vero, ma riconoscete nella doppiezza di questa madre – reale o inventata che sia – una psicologia realistica. Con qualche ricerca, trovereste anche l’attivista pro-aborto che preme sulla figlia incinta perché tenga il bambino.

Per arrivare a un giudizio su Voltaire avremmo bisogno di conoscere i suoi discorsi in privato. Se a letto con l’amante diceva “oh, questa baggianata della tolleranza rende bene: oggi la duchessa di C. mi ha scritto che sono lo spirito più nobile dei nostri tempi!” era un furfante. Se invece esaltava sempre la tolleranza, in pubblico e con gli amici, nei libri e nelle conversazioni, la sua operazione contro Rousseau lo qualifica come un ipocrita.

Di Voltaire come persona ci restano la sua corrispondenza (21.000 lettere) e le cronache dei suoi contemporanei. Né nell’una né nelle altre incontriamo frasi meno che alate sulla tolleranza. Anche nei Sentimenti dei cittadini, dove si copre con l’anonimato, Voltaire vuole sottolineare che la tolleranza “è una virtù”: se invoca la punizione di Rousseau è solo perché l’autore delle Lettere ha sconfinato nella demenza. Purtroppo, capite che non c’è differenza pratica fra un intollerante e un tollerante che trova il modo di fare eccezioni contro i suoi nemici.

Il Voltaire che nega i fatti scrivendo al Segretario di Stato di Ginevra pare slittare verso la furfanteria. Però notate l’ambiguità della lettera. Voltaire scrive “se avessi fatto il torto più piccolo alla sua persona”: può significare che non ha fatto nulla a Rousseau o che non ha fatto nulla che non avesse ragione di fare (nessun torto). E “se fossi servito ad opprimere un uomo di lettere” può significare sia che non è intervenuto, sia che il suo intervento non è “servito”, perché Rousseau sarebbe stato punito comunque.

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lunedì 14 giugno 2010

Grandezza automatica

Niccolò Machiavelli
"Le azioni che hanno in sé grandezza, come hanno quelle dei governi e degli Stati, comunque elle si trattino, qualunque fine abbiano, pare sempre portino agli uomini più onore, che biasimo".
Niccolò Machiavelli, a proposito dell'assenza nei politici di incentivi esterni a governare bene, perché anche le loro azioni più sciocche o malvagie sono avvolte nel manto di grandezza delle cose pubbliche (Storie Fiorentine, prefazione).

giovedì 10 giugno 2010

Lo Jean-Paul One

"In una partita di calcio, tutto è complicato dalla presenza degli avversari".
Jean-Paul Sartre, via WSJ.
Non escludo che anche la sua celebre frase, "L'inferno sono gli altri", gli sia stata ispirata da una fase di sofferenza tattica della squadra per cui tifava.

martedì 8 giugno 2010

Tutti impastati di debolezze ed errori

L’ipocrisia è un caso speciale di un fenomeno che scopriamo fin da bambini, quello per cui la gente non fa ciò che dice. I primi traditori sono mamma e papà, quando scordano una promessa solenne che ci avevano fatto, e vanno in collera di fronte alle nostre lacrime di delusione. La successiva frequentazione di insegnanti e amichetti ci insegna che il proverbio “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare” è una verità umana universale. L’ipocrisia è un caso speciale perché la gente viene meno alle sue dichiarazioni per tanti motivi: manca di forza di volontà (annuncia che inizierà una dieta e non la inizia mai), di riguardo verso di noi (ci dà un appuntamento alle tre e arriva alle quattro), sopravvaluta i suoi mezzi (giura che ci procurerà un lavoro e non riesce a procurarcelo). Gli ipocriti vengono meno alle loro dichiarazioni perché hanno parlato solo allo scopo di farsi belli. Sono ipocriti:
  • coloro che si protestano nostri amici e spariscono quando ci serve aiuto;
  • coloro che chiacchierano di valori, di morale, di princìpi e non li mettono in pratica;
  • coloro che condannano i peccati altrui in pubblico e ne commettono di identici in privato.

Voltaire era un ipocrita? Esaminiamo la vicenda.

Il principio di tolleranza dice che dobbiamo convivere in pace con i nostri concittadini. La conseguenza pratica è che non dobbiamo perseguitare chi ha opinioni errate o modi di vita immorali. è una conseguenza controintuitiva, perché il nostro istinto davanti agli errori e ai peccati è mettere le mani addosso a chi li commette: schiaffeggiamo i bambini che sbagliano e diciamo “ti picchierei” agli adulti che prendono granchi.

Ci sono molti argomenti a favore del principio di tolleranza, il più ovvio dei quali è che ciò che ci pare errato o immorale potrebbe essere vero e giusto. Fu l’argomento favorito di Voltaire, che consumò barili di inchiostro per denunciare la fallibilità umana e ricordarci quante volte mutiamo parere su materie che all’inizio ci erano parse certissime. “Siamo tutti impastati di debolezze e di errori: perdoniamoci reciprocamente i nostri torti, è la prima legge di natura”, scrisse alla voce “Tolleranza” del suo Dizionario filosofico.

Voltaire consumò altri barili di inchiostro per accusare le religioni di essere la maggiore causa storica dell’intolleranza, citando a testimonianza gli eccidi commessi dai pii cristiani, dai musulmani devoti e da altri credenti entusiasti contro gli infedeli da convertire. Amante dei costumi inglesi, Voltaire era solito paragonare i francesi oppressi dai preti e dai regnanti ai vicini felici d’oltre Manica. Sempre nel Dizionario filosofico, il personaggio Boldmind dice: “Sono i tiranni delle menti a causare una parte delle sventure del mondo. Noi, in Inghilterra, viviamo felici solo da quando ciascuno gode liberamente del diritto di dire la sua opinione”.

Ora, la rivalità fra Voltaire e Rousseau nasceva più da rancori personali che da questioni di opinione. C’era il poco riguardo che Rousseau, un giovane, mostrava verso Voltaire, che si riteneva a buon titolo un gigante. C’era la sicumera di Voltaire, che aveva un suo modo sarcastico e feroce di irridere chiunque non gli piacesse. C’erano le manie di Rousseau, un ombroso che scovava nemici anche nella minestra. C’erano anni di liti pubbliche fra i due. Quando Rousseau svelò che Voltaire era l’autore segreto del Sermone dei cinquanta, un colpo sotto la cintola, la rivalità degenerò. Mi immagino Voltaire che, dopo aver letto le Lettere scritte dalla montagna, cammina avanti e indietro nel suo studio e fantastica di strozzare il rivale.

Però in quel momento Rousseau era uno scrittore perseguitato. Forse sarebbe stato troppo chiedere a Voltaire di soccorrere chi gli stava mordendo la mano, ma è disonorevole che abbia messo legna sul fuoco dell’intolleranza dei ginevrini. Voltaire chiese al Piccolo Consiglio di agire contro Rousseau a causa delle sue opinioni religiose e politiche, non per diffamazione (come avrebbe potuto, in risposta all’accusa di avere scritto il Sermone). L’avvocato della tolleranza scelse gli aggettivi “blasfemo”, per eccitare il fanatismo popolare, e “sedizioso”, per provocare la repressione delle autorità. Infine, suggerì ai ginevrini di condannare a morte Rousseau, che è come se oggi il papa suggerisse ai terroristi islamici di uccidere un vescovo cattolico di cui ha bisogno di liberarsi.

A Voltaire non dovette sfuggire la contraddizione fra le sue azioni e i suoi princìpi ufficiali, se pubblicò I sentimenti dei cittadini anonimo. Potreste anche domandarvi perché Voltaire fosse in contatto cordiale con devoti cristiani di Ginevra che, prima di Rousseau, avevano perseguitato altri scrittori.

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lunedì 7 giugno 2010

Risposte vincenti

Gore Vidal
"Fui troppo educato per chiederlo".
Risposta di Gore Vidal a un giornalista televisivo che gli aveva chiesto se la sua prima esperienza sessuale era stata con un uomo o con una donna. Via Marginal Revolution ("How to answer questions about your sexual orientation").

martedì 1 giugno 2010

Un episodio poco noto della vita di Voltaire

Il motto di Voltaire “Detesto ciò che scrivi, ma darei la vita perché tu possa continuare a scrivere” suona iperbolico a noi lettori moderni, abituati a difendere la libertà di parola firmando petizioni. A metà del Settecento, quando Voltaire concepì questa frase, il rischio di morire per avere aiutato un autore in disgrazia era reale. I principi e i vescovi temevano la carta stampata, in cui scorgevano un veicolo delle rivoluzioni, e vigilavano su ogni nuova uscita. Se un libro puzzava di sovversione, ordinavano agli stampatori di consegnare le copie e le bruciavano nelle piazze. Al rogo seguivano la cattura, la prigionia e a volte l’esecuzione dell’autore, se non era svelto a rifugiarsi all’estero. Lo stesso Voltaire spese un anno in carcere nel 1717 per una satira sul Reggente di Francia, e visse poi tre anni in esilio in Inghilterra. Proteggere uno scrittore, schierandosi al suo fianco, equivaleva a farsene complice e ad essergli compagno nelle punizioni.

Neanche il verbo “detestare” era iperbolico. Autore di centinaia di pamphlet, Voltaire fu un bombardiere inesorabile dei suoi avversari filosofici e politici. Se leggete le sue opere, balza agli occhi quanto detestasse alcuni di loro, che combatteva non solo a colpi di dialettica, ma anche con gli insulti e le malignità personali. Jean-Jacques Rousseau fu forse il suo bersaglio preferito.

All’inizio della carriera, quando collaborava alla grande Enciclopedia di Diderot e D’Alembert, Rousseau aveva mostrato il dovuto rispetto a Voltaire, più anziano e più famoso di lui. Invecchiando, Rousseau si allontanò dagli enciclopedisti e prese posizioni filosofiche da cane sciolto, finché, nel 1756, attaccò le tesi di Voltaire sulla provvidenza divina. Secondo Voltaire, Dio non interveniva negli affari umani, secondo Rousseau sì. Ne era sorta una rissa intellettuale, con scambi di pamphlet e contro-pamphlet, dopo la quale i due filosofi non persero più occasione di bastonarsi a vicenda.

Nei primi mesi del 1762 Rousseau pubblicò due dei suoi libri più importanti: Emilio, dove diceva che nasciamo buoni e poi la società ci corrompe, e Il contratto sociale, dove diceva che nasciamo liberi e poi il potere ci incatena. Entrambe le opere dispiacquero alle autorità: i vescovi amavano l’idea che nasciamo corrotti, e poi sono loro a farci buoni; i principi giudicavano le catene indispensabili per governare.

A giugno, il Parlamento di Parigi mandò al rogo Emilio. Dopo pochi giorni il Piccolo Consiglio di Ginevra, la città dove Rousseau era nato e abitava, mandò al rogo Emilio e Il contratto sociale perché “temerarie, scandalose ed empie, e tese a distruggere la religione cristiana e ogni governo”. Rousseau si rifugiò a Motiers, nel principato svizzero di Neuchâtel.

In quegli anni Voltaire viveva nel suo castello di Ferney (oggi Ferney-Voltaire), una cittadina nello Jura francese a pochi chilometri da Ginevra. Ormai settantenne, Voltaire sfoggiava ancora la prosa mordace della giovinezza ma i suoi rapporti con i potenti erano migliorati. Aveva amici a corte, era un protetto della Pompadour, l’Académie Française l’aveva accolto fra i suoi membri. A Ginevra, Voltaire era in contatto cordiale con i notabili che governavano la città attraverso il Grande e il Piccolo Consiglio.

Voltaire detestava Rousseau e le sue idee. Quanto ad aiutarlo perché continuasse a scriverle, ne aveva i mezzi. Dopo l’uscita di Emilio e Il contratto sociale, quando le autorità dibattevano il da farsi, Voltaire avrebbe potuto premere sui sodali parigini e ginevrini perché risparmiassero i libri o almeno la persona di Rousseau.

Che fece Voltaire? La vicenda è intricata e mi limito ai fatti principali.
  1. Non risulta una lettera, un abboccamento, una dichiarazione dove Voltaire abbia difeso Rousseau durante le polemiche intorno a Emilio e Il contratto sociale, né si ricordano sue parole di rammarico dopo il rogo dei due libri.
  2. Rousseau notò il silenzio del rivale. Nel 1764 pubblicò un opuscolo, le Lettere scritte dalla montagna (cioè da Motiers, il suo rifugio), dove attaccava il governo di Ginevra. Nella quinta lettera, Rousseau si chiedeva perché Voltaire, un fautore così ardente della tolleranza, non fosse intervenuto a suo favore: “Questi signori del Gran Consiglio vedono così spesso il signor Voltaire; come può non avere ispirato in loro quello spirito di tolleranza che predica senza pausa, e di cui ogni tanto ha lui stesso bisogno?”.
  3. Nella stessa lettera Rousseau svelava che Voltaire era l’autore del Sermone dei cinquanta, una scandalosa opera anonima che denunciava la falsità storica del Vangelo. Lo scopo di Rousseau era vendicarsi e mostrare ai notabili di Ginevra che, se volevano castigare gli empi, avrebbero dovuto occuparsi innanzi tutto del loro amico di Ferney.
  4. Le accuse di Rousseau fecero rumore a Ginevra. Voltaire contrattaccò. Abbiamo una sua lettera a François Tronchin, un membro influente del Piccolo Consiglio, dove definiva Rousseau un “blasfemo sedizioso” e invitava il governo non solo a bruciarne le opere, ma ad agire contro il temerario con “tutta la severità della legge”. Allora la massima severità della legge era la pena di morte.
  5. Nel frattempo Voltaire scrisse I sentimenti dei cittadini, che fece uscire anonimo a Ginevra. In questo pamphlet Voltaire si fingeva un pastore protestante indignato dalle Lettere e chiedeva ai ginevrini di punire Rousseau. Secondo il pastore la tolleranza aveva un limite: “Si ha pietà di un folle; ma quando la demenza diventa furore, lo si lega. La tolleranza, che è una virtù, sarebbe in quel caso un vizio”. Il resto dell’opuscolo mirava a provare che Rousseau era per l’appunto un “demente”, un “traditore” e un “calunniatore”, desideroso di dividere la repubblica. Nel finale il pastore ribadiva il concetto della massima severità: “Occorre insegnargli che se si punisce leggermente un romanziere empio, si punisce con la morte un vile sedizioso”.
I sentimenti dei cittadini circolò molto, non solo a Ginevra. Le Lettere furono bruciate in tutta Europa. Rousseau, condannato anche nel Principato di Neuchâtel, che fino ad allora lo aveva protetto, dovette fuggire da Motiers. Il popolo murò la porta della sua casa in segno di disprezzo, così che non potesse più tornarci.

Ai giorni nostri la casa, riaperta, è diventata un “Musée Rousseau” e procura introiti generosi alla località svizzera.

Dopo varie tappe in Europa, Rousseau trovò ospitalità presso il collega David Hume, in Inghilterra. I due litigarono presto.

Il pastore di I sentimenti dei cittadini restò segreto.

In seguito Voltaire negò i fatti. In una lettera del 1766 al segretario di Stato di Ginevra, Voltaire scrisse: “Non sono per nulla amico del signor Rousseau, dico ad alta voce ciò che penso di buono e di cattivo delle sue opere; ma, avessi fatto il torto più piccolo alla sua persona, fossi servito a opprimere un uomo di lettere, me ne sentirei troppo colpevole”.

(Continua)