sabato 27 novembre 2010

martedì 14 settembre 2010

Nessuno spettegola sulle qualità segrete degli altri

L’indignazione e le sue varianti non esauriscono le emozioni morali. Quattro dei cinque temi di Haidt – giustizia, lealtà, rispetto dell’autorità, purezza – sono virtù e suscitano in noi emozioni di plauso. Ammiriamo il padre giusto che non fa preferenze fra i suoi figli, l’amico leale che sta al nostro fianco, il soldato esemplare che scatta sull’attenti quando entra un superiore, il sorriso incontaminato dei bambini. Anche il quinto tema – il danno – ha un rovescio virtuoso nella generosità verso gli altri. Queste manifestazioni del bene sono i rari momenti in cui il mondo ci appare sano.

Due tratti distinguono le emozioni di plauso dall’indignazione e le sue varianti.
  1. Possono essere autodirette: mentre ci indigniamo solo degli altri, applaudiamo sia gli altri, sia noi stessi. Ci felicitiamo di ogni nostra esibizione di generosità, giustizia, lealtà, deferenza per i capi e, come Himmler, ci piace immaginarci puri. Per questo motivo i custodi della morale rimproverano il virtuoso che si compiace delle sue opere buone, invitandolo alla modestia, che è la virtù (forse mitica) che consiste nel non sentire emozioni di plauso verso noi stessi.
  2. Sono tiepide: mentre le violazioni morali ci fanno uscire il fumo dalle narici, le azioni buone ci inducono sorrisi fugaci. La folla lincia i bruti colti a molestare i bambini e osserva olimpica il pedone che aiuta la vecchietta a traversare la strada. Rimuginiamo sui torti subiti per decenni, dimentichiamo i favori ricevuti dopo pochi giorni. I giornalisti, che sanno cosa appassiona il pubblico, sbattono il mostro in prima pagina e il filantropo nel trafiletto della cronaca locale.
Jonathan Haidt e una sua collaboratrice hanno analizzato un campione di conversazioni registrate e calcolato che le storie che la gente racconta sulle buone azioni altrui sono un decimo delle storie sulle trasgressioni. Queste ultime, dicono i due, ci rendono euforici: “Quando la gente diffonde pettegolezzi di alta qualità (‘succosi’) si sente più potente, ha un maggiore senso condiviso di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato e si sente unita più strettamente ai compagni di pettegolezzo”. Diceva Bertrand Russell: “Nessuno spettegola sulle qualità segrete degli altri”.

A volte i pettegoli sono mossi dal calcolo, perché sperano di trarre vantaggi strategici dal rovinare la reputazione degli altri. Ma sparlare è una delizia in sé, come dimostra l’interesse dei pettegoli per le stelle della TV, i regnanti e altre personalità cui non hanno il potere di fare del male.

La nostra ossessione per le carenze morali del prossimo si rivela anche nelle confabulazioni cui ci abbandoniamo contro chi ci dà un motivo di malanimo. Un amico tarda a un appuntamento senza avvertire? Mentre lo aspettiamo, elenchiamo nella mente tutti i suoi storici vizi, che trovano un compimento perfetto nel ritardo che sta facendo. Un collega ci nega un favore? I nostri occhi si aprono sui diecimila piccoli torti che ci aveva già fatto in passato, e di cui fino ad ora non ci eravamo accorti. Queste confabulazioni interne sono rozze, politicamente scorrette e abbondano in parolacce, non importa quale sia il nostro stile abituale. Non distinguereste un poeta da un camionista se poteste ascoltarle.

I pettegolezzi non sono che la versione per il pubblico di queste confabulazioni interiori. In ogni caso, i pettegolezzi ci danno materiale di cui parlare, animando conversazioni che altrimenti non valicherebbero la fase iniziale dei commenti sul tempo. Inoltre, i pettegolezzi sono una fonte di informazioni per gli affari e le relazioni sociali. I pochi coscienziosi che trovano ineducato sparlare degli assenti restano ignari degli ultimi sviluppi nel loro ambiente, scoprono le navi quando sono già salpate e non fanno carriera.

Gli scienziati sociali, sempre a caccia di dati sulle pratiche umane, dovrebbero sfruttare di più il nostro gusto per il pettegolezzo. Un sociologo che vuole studiare gli ospedali di solito chiede ai medici di parlargli del loro lavoro. In risposta il sociologo ottiene castelli in aria, perché i soggetti rimasticano le loro esperienze quotidiane per trarne un ritratto presentabile di se stessi. Se il sociologo dicesse ai medici “Mi parli dei suoi colleghi” otterrebbe dati più veri e succosi sulla vita ospedaliera.

Che la gente dedichi il 90% delle conversazioni a sparlare degli assenti implica che c’è un 90% di probabilità che i nostri conoscenti, colleghi, amici e parenti sparlino di noi quando non ci siamo. Significa che un’altra forma di ipocrisia, quella per cui la gente ci pugnala alle spalle e ci sorride di fronte, è inevitabile. La gente sparla di noi perché farlo l’euforizza e ci sorride per mantenere il rapporto. Come diceva Blaise Pascal, “Se tutti sapessero ciò che uno dice dell’altro non ci sarebbero quattro amici al mondo”.

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martedì 7 settembre 2010

Controllo sociale

Anche se le nostre emozioni morali sono rivolte contro gli altri, siamo sensibilissimi a queste emozioni quando gli altri le dirigono su di noi. Vi hanno mai accusato in pubblico di essere un malfattore? Di essere parziale? Sleale? Irrispettoso? Sporco? Come avete dormito la notte successiva? Se queste accuse erano vere, vi sarete sentiti avviliti come un bambino che se l’è fatta addosso. Se erano false, vi sarete rigirati nel letto temendo che qualcuno credesse al vostro accusatore.

La nostra sensibilità alle critiche altrui rimedia alla freddezza emotiva verso i nostri peccati. Non ci vuole la teoria dei giochi per capire che una società dove (a) ognuno è pronto a indignarsi delle colpe degli altri e (b) l’indignazione altrui ci tiene svegli di notte può trovare un equilibrio dove in molti evitiamo di peccare per amore della tranquillità. Questa paura del giudizio altrui svolgerà il ruolo di poliziotto interiore che le emozioni morali, eterodirette, rifiutano. Diceva il grande R.L. Mencken: “La coscienza è la voce interiore che ci dice che qualcuno potrebbe vederci”. Ovviamente, faremo tutti i peccati che siamo in grado di fare di nascosto ma, nel vasto spazio della vita che conduciamo sotto lo sguardo curioso degli altri la maggioranza di noi rinuncerà ai danneggiamenti, alle ingiustizie, alle slealtà, ai vilipendi dell’autorità e alle porcherie.

Biasimare il prossimo può essere un mezzo di controllo sociale persino più efficace delle emozioni morali autodirette che la natura non ha voluto fornirci. Immaginate un mondo dove invece tutti le avessero e inorridissero al solo pensiero di rubare una mela. Non è arduo immaginarsi questo mondo perché è proprio come la gente ama descriversi. L’orrore del furto, per quanto forte, sarebbe in dissidio interiore con la tentazione di rubare, che a sua volta può essere gagliarda (per esempio se avete fame). Un dissidio interiore è una lotta di uno contro uno. Il giudizio degli altri, invece, è una lotta di molti contro uno. Quando è più probabile che l’affamato rinunci a rubare la mela? Quando lotta contro sé stesso per non farlo, o quando è circondato da vicini pronti a manganellarlo se si avvicina all’albero?

Che il controllo sociale si fondi sul biasimare il prossimo implica che l’ipocrisia può essere benefica. L’ipocrita che fa il male in segreto ma castiga in pubblico i delitti di tutti può ridurre la quantità di azioni antisociali più del giusto che si comporta bene ma non si cura della condotta degli altri. È un’ipotesi sgradevole, ma escluderla sarebbe belief overkill ("l’ipocrisia è cattiva, quindi è dannosa").

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martedì 31 agosto 2010

Emozioni morali

Nessuno dei personaggi della storia di Davide e Betsabea fa una bella figura: né Davide, che orchestra la morte di un uomo, né Dio, che punisce la morte di un innocente (Uria) uccidendone un altro (il bambino), né Natan, che si fa ambasciatore di questa punizione grottesca, né Uria, fissato sul cameratismo, né Betsabea, che si spoglia nuda all’aperto e, guarda caso, proprio sotto la terrazza del re. Ma mi occuperò solo di Davide, e della sua indignazione contro il ricco scellerato che aveva rubato la pecora al povero.

La specie umana è fornita di emozioni morali, che sono vivaci, automatiche e hanno la forma di una ribellione interiore allo spettacolo del male, come quella che provò Davide ascoltando il racconto di Natan. Gli psicologi moderni, che usano le risonanze magnetiche per studiare quali zone del cervello si accendono mentre abbiamo questa o quella reazione, dicono che le emozioni morali hanno sede in zone antiche, che i nostri antenati possedevano già quando abitavano sugli alberi. Gli etologi hanno scoperto emozioni morali in altri mammiferi: le scimmie vanno in collera contro i membri sleali del branco, i cani hanno atteggiamenti sdegnati quando un rivale osa avvicinarsi alla loro pallina. Fra gli esseri umani, persino i farabutti conservano la capacità di indignarsi: il mafioso disprezza il picciotto che tradisce, i carcerati aggrediscono i nuovi arrivi che hanno commesso delitti disgustosi.

Lo psicologo Jonathan Haidt sostiene che le nostre emozioni morali sono innescate da cinque grandi temi.
  1. Il danno, ossia il male fatto ad altri. Emozione: l’indignazione verso chi uccide, chi ruba, chi fa soffrire un innocente.
  2. La giustizia, che è l’equilibrio fra ciò che facciamo e ciò che riceviamo. Emozione: lo scandalo che ci suscitano un delitto impunito, un merito non premiato, un favore non ricambiato, il malvagio che trionfa, il buono perseguitato.
  3. La lealtà verso il gruppo o nel rispettare gli accordi. Emozione: il disprezzo verso chi tradisce, chi inganna, chi mente.
  4. L’autorità, che è l’alone che circonda i capi, gli anziani e i notabili. Emozione: il senso di offesa personale quando un imprudente vilipende le autorità o le tratta con familiarità fuori luogo.
  5. La purezza, che è il contrario dello sporco, del basso, del contaminato. Emozione: il disgusto per le azioni impure, dove l’impuro ha a che fare con il sesso e la corporeità.
Il racconto di Natan proponeva il tema del danno (l’innocente che soffre) e dell’ingiustizia (il ricco che vessa un povero). La reazione di Davide illustra quanto ci è naturale indignarci. Il fatto che Davide fosse reduce dallo stesso delitto mostra il limite delle emozioni morali: sono eterodirette, cioè colpiscono le colpe del prossimo. Se il male è fatto da noi, tacciono. Pensate alle bugie: le diciamo senza vergognarci quando servono, ma ci sentiamo oltraggiati se scopriamo che un amico ci ha mentito.

Questo è un brano di un discorso in cui Heinrich Himmler, il comandante delle SS, spiega ai subalterni perché non devono rubare nulla agli ebrei:
"Noi avevamo il diritto morale di fronte al nostro popolo di annientare questo popolo che voleva annientare noi. Ma non abbiamo il diritto di portare via a costoro una sola pelliccia, un solo orologio, una sola sigaretta o qualsiasi altra cosa. Non vogliamo che alla fine, solo perché abbiamo sterminato un germe, possiamo essere infettati proprio da quel germe".
Himmler parla la lingua delle emozioni morali. Esprime disprezzo per il furto (danno), invoca la giustizia per motivare lo sterminio degli ebrei, che bilancia lo sterminio fantomatico che avrebbero tramato contro i tedeschi, e infine inventa un “germe” giudaico pronto a contaminare gli ariani (purezza). Può darsi che Himmler sentisse davvero queste emozioni quando pensava ai furti dei suoi subalterni, soprattutto nel calore del comizio. Però non le sentiva quando il regime nazista, di cui era uno dei capi, incamerava l’oro degli ebrei uccisi, o almeno non risulta che Himmler facesse recapitare i preziosi delle vittime ai loro parenti fuggiti in America.

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venerdì 27 agosto 2010

Ops

Irene è tornata dalle vacanze in montagna:
"Nei momenti più difficili, mi aggrappavo a un unico pensiero: no cazzo, *non posso* cadere rompermi sette gambe e farmi venire a prendere dall'elicottero, perché altrimenti sicuro qualche blogger ne approfitterà per scrivere della gente che va in montagna a rischiare la pelle eh un po' se le cerca e oltretutto poi paghiamo noi e meno male che almeno non aveva figli.
E, perdio, tutto ma materiale per blogger no" (Alcune differenze fra me e una capra).

Più storia in aula, più matematica a casa

"Fra tutte le materie in cui uno studente può imbattersi dopo le scuole elementari, la matematica è di gran lunga la più facile da imparare da soli".
Mark Palko ("Teaching yourself mathematics").

giovedì 26 agosto 2010

L'intervento di Sergio Marchionne al Meeting di Rimini di Comunione e Liberazione

"Vi confesso che l’intervento che avevo preparato per voi era molto diverso da quello che invece sentirete.

Avrei voluto parlarvi dei grandi temi su cui la nostra società – qualunque società che voglia davvero definirsi giusta – ha il dovere di interrogarsi.

Avrei voluto riflettere sul senso della globalizzazione, quando porta benefici reali alle nostre vite; e sul non-senso della globalizzazione stessa, quando non ha nulla da offrire a chi è devastato dalla violenza della povertà.

Avrei voluto raccontarvi di quando, undici anni fa, ho avuto la fortuna di incontrare Nelson Mandela, a Davos.

Avrei voluto condividere con voi le questioni più spinose con le quali l’umanità si deve confrontare:
  • come sia possibile restare indifferenti di fronte allo scandalo della distribuzione della ricchezza mondiale;
  • come sia possibile parlare di sviluppo e benessere se gran parte della nostra società non ha nulla da mettere in gioco al di fuori della propria vita.
Volevo affrontare questi temi con voi perché siete giovani e avete in mano il futuro.

Ma non posso ignorare l’importanza di quello che sta succedendo in Italia, collegato alle vicende dello stabilimento di Melfi, e la gravità delle accuse che ho sentito muovere verso la Fiat."
Peccato, avrei preferito che parlasse proprio dello scandalo della distribuzione della ricchezza mondiale. Il resto dell'intervento è dedicato alla sua storia personale (emigrato dall'Abruzzo, ecc.), ai valori forti della Fiat, a prediche sulla libertà e la passione e al fatto che gli operai devono ubbidire smetterla di credere che i loro interessi siano opposti a quelli dei padroni.

Nel finale augura agli spettatori di diventare come i dirigenti della Fiat, "uomini e donne di virtù".

Testo integrale qui: pdf.

E manderò "Vi confesso che l'intervento che avevo preparato è identico a quello che sentirete" al blog dei luoghi comuni all'incontrario.

martedì 24 agosto 2010

La morale è l’insieme di emozioni che ci porta a giudicare gli altri

Un pomeriggio in cui ammirava il panorama dalla terrazza del suo palazzo, re Davide vide un fenomeno che “lo obbligò a trattenere gli occhi prima che gli sporgessero dalla testa al di là di ogni possibile recupero”, come leggereste nella Bibbia se fosse opera del grande P. G. Wodehouse. Il fenomeno era la giovane Betsabea, che nel cortile di una casa faceva il bagno così com’era stata fatta dal vero autore del libro. Questi, poco incline alle iperboli dell’umorista inglese, scrive solo che Betsabea era “molto bella d’aspetto” e che Davide ordinò ai servi di informarsi subito su chi fosse la donna che gli aveva procurato quel fastidio agli occhi.

I servi gli dissero che la giovane era Betsabea, moglie di Uria, un guerriero fedele e di vigore indiscutibile che in quel momento stava massacrando adulti e bambini nella terra degli Ammoniti, dove Davide aveva spedito l’esercito di Israele in una delle sue tradizionali missioni di autodifesa. Preso atto che Uria era trattenuto da questi impegni, Davide inviò i suoi messaggeri da Betsabea perché la conducessero alla reggia.

Betsabea rimase incinta.

Fra i pochi inconvenienti di regnare, uno dei più scoccianti è l’interesse morboso dei sudditi per le cadute di chi li comanda. Se il re si mette un dito nel naso a una parata militare, è certo che ogni spettatore se ne accorgerà e tramanderà l’episodio ai conoscenti che non hanno avuto il bene di assistervi. Dopo anni, le madri rimprovereranno i bambini che fanno quel gesto dicendo “Aronne, credi di essere il re?”. Figuriamoci – rifletté Davide – cosa avrebbe detto il popolo dopo avere saputo che il re si era portato a letto la moglie di un soldato mentre il cornuto combatteva per la patria. Ne avrebbero parlato per millenni. Ci avrebbero scritto sopra romanzi.

Davide stava per strapparsi i capelli quando gli venne in mente un modo elementare di scampare allo scandalo: richiamare Uria, così che facesse con sua moglie ciò che un guerriero di vigore indiscutibile ha la tradizione di fare appena torna dal fronte, e avesse a credere che il bambino fosse suo. Un minuto dopo Davide scriveva a Ioab, il capo dell’esercito di Israele, perché spedisse Uria a informarlo sull’andamento della guerra.

Uria tornò e si presentò al re. Al termine dell’udienza, un Davide sorridente donò a Uria una portata della tavola e lo invitò ad andare a casa a cenare.

È una regola delle storie che iniziano con un colpo di fortuna magnifico, qual è vedere una bella donna nuda affacciandosi alla terrazza, che la continuazione sia devastata da disgrazie imprevedibili. Quando si fu congedato dal re, Uria pensò ai cari compagni che aveva abbandonato al fronte. Parve al guerriero fedele che tornare a casa, a godersi la gioia di una donna nel letto, fosse un insulto agli amici che in quel momento sopportavano le durezze dell’accampamento. Preso dal senso di colpa, Uria decise di restare alla reggia e di simulare una camerata andando a dormire con i servi.

Davide inorridì quando ne fu informato. Recatosi a vedere la mostruosità, fece svegliare Uria e gli chiese perché non fosse a casa. Uria disse:
L’arca, Israele e Giuda abitano sotto le tende, Ioab mio signore e la sua gente sono accampati in aperta campagna e io dovrei entrare in casa mia per mangiare e bere e per dormire con mia moglie? Per la tua vita e per la vita della tua anima, io non farò tal cosa! (Sam 2, 11; 11).
Il re tornò ai suoi appartamenti, mormorando una tirata sull’idiozia dei soldati che avrebbe un posto fra i classici dell’antimilitarismo di ogni epoca, se il vero autore della Bibbia non ci avesse fatto il torto di ometterla.

La sera seguente Davide invitò Uria a cena e lo fece ubriacare. Quando ritenne di avere distrutto ogni dignità nella vittima, e di avere proferito un numero sufficiente di battute sulle “lance dei guerrieri”, il re accompagnò Uria a braccetto all’uscita della reggia, gli diede una pacca sulle spalle e gli disse di andare da sua moglie.

Appena Uria uscì dalla vista di Davide, tornò indietro e andò a dormire con i servi.

Appreso il fallimento del piano, il re passò la notte guardando il soffitto della camera da letto.

Al mattino, Davide disse a Uria di tornare al fronte e consegnare una lettera sigillata a Ioab. Nella lettera era scritto:
Ponete Uria in prima fila, dove più ferve la mischia; poi ritiratevi da lui perché resti colpito e muoia (Sam 2, 11; 15).
Ioab ubbidì. Uria fu trafitto dagli arcieri nemici durante l’assedio israeliano alla città ammonita di Tebez. Quando giunse la notizia, Betsabea prese il lutto, mentre Davide fu udito fischiettare in terrazza. Appena il lutto fu concluso, Davide sposò la vedova di Uria. Il popolo salutò il bambino come figlio del re.

È noto che nella vita vera Dio lascia i malfattori impuniti, tanto che molti di loro non solo conservano la salute, ma si arricchiscono e salgono la scala sociale fino alla vetta. Forse Dio vuole illuderli, per poi punirli dopo morti. Nella Bibbia vige però un regime diverso, dove i bambini che dileggiano Elia sono subito sbranati dagli orsi.

Fu così che Natan, il profeta di corte, chiese al re un colloquio a quattr’occhi. Ignaro del missile che stava dirigendosi su di lui, Davide acconsentì. Natan gli disse:
Vi erano due uomini nella stessa città, uno ricco e l’altro povero. Il ricco aveva bestiame minuto e grosso in gran numero; ma il povero non aveva nulla, se non una sola pecorella piccina che egli aveva comprata e allevata; essa gli era cresciuta in casa insieme con i figli, mangiando il pane di lui, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno; era per lui come una figlia.

Un ospite di passaggio arrivò dall’uomo ricco e questi, risparmiando di prendere dal suo bestiame minuto e grosso, per preparare una vivanda al viaggiatore che era capitato da lui portò via la pecora di quell’uomo povero e ne preparò una vivanda per l’ospite venuto da lui (Sam 2, 12; 1-4).
Davide si fece assorbire dalla storia, che vi è lecito immaginare più lunga e meno ripetitiva di quanto sia nella Bibbia. Quando Natan finì, Davide era infervorato e disse:
Per la vita del Signore, chi ha fatto questo merita la morte. Pagherà quattro volte il valore della pecora, per aver fatto un tal cosa e non avere avuto pietà (12; 5-6).
Natan disse:
Tu sei quell’uomo! (12; 7).
Davide, prima euforico, entrò in quello stato di preoccupazione che vi prende quando vi informano che avete i pantaloni in fiamme. Natan disse che come il ricco scellerato aveva rubato al povero la sua unica pecora, così Davide, cui Dio aveva dato lo scettro e un harem (in quel tempo gli ebrei erano poligami), aveva rapito a Uria l’unica moglie che avesse. Poi il profeta ripercorse i punti principali della faccenda della lettera a Ioab.

Davide taceva. Il passo successivo era l’annuncio della pena.

Natan disse:
Così dice il Signore: Ecco io sto per suscitare contro di te la sventura dalla tua stessa casa; prenderò le mogli sotto i tuoi occhi per darle a un tuo parente stretto, che si unirà a loro sotto la luce di questo sole; poiché tu l’hai fatto in segreto, ma io farò questo davanti a tutto Israele. (12; 11-12).
Da buon re antico che ha cura del suo onore virile, Davide si irrigidì come se un serpente gli si fosse parato davanti. Neanche il ghigno del profeta – che non vedeva l’ora di assistere alla scena – gli giovò.

Allora Davide fece ciò che nelle circostanze disperate un vero uomo deve essere capace di fare: piangere.

Il pianto funzionò. Natan inarcò le sopracciglia, sospirò, e disse che il Signore acconsentiva a tramutare la pena annunciata in quella – evidentemente meno grave – della morte del bambino. Il piccolo si ammalò all’istante. Dopo sette giorni era stecchito. In seguito Betsabea diede a Davide un altro figlio, Salomone, che costruì il Tempio e fu il re più grande della storia di Israele.

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Una versione precedente è già apparsa in Universi Paralleli

lunedì 23 agosto 2010

Il passato senza la patina del passato è indistinguibile dal presente



Foto originale a colori del 1910 di Mir Mohammed Alim Khan, Emiro di Bukhara (Uzbekistan). Fonte: The Big Picture, che ha altre 33 foto dello stesso periodo.

martedì 3 agosto 2010

Nessuno è ideologico con se stesso

La popolarità di un’opinione non è mai stata un segno della sua verità. Fra le opinioni del Novecento che hanno conquistato adesioni di massa si contano:
  • l’opinione alla fine della prima guerra mondiale che le nuove tecnologie belliche si fossero rivelate così distruttive che le nazioni non avrebbero più osato combattersi;
  • l’opinione in Germania negli anni Venti e Trenta che esistesse una razza ariana;
  • l’opinione della maggioranza degli intellettuali del secondo dopoguerra che il comunismo fosse più efficiente del capitalismo;
  • l’opinione degli americani prima dell’invasione dell’Iraq che gli iracheni li avrebbero ringraziati per avere rimosso Saddam Hussein.
Queste opinioni sballate possono derivare da una malaugurata caduta generale nello Schema 2: “Se X suona bene, X!”. Tuttavia, su ogni questione c’è sempre un numero di opinioni che possono suonare altrettanto bene: cosa decide la vittoria dell’opinione X invece che Y?

Non ho teorie, ma segnalo che numerose opinioni di successo hanno un tratto comune: permettono a molti di essere buoni ipocriti. Con “buoni ipocriti” intendo gli ipocriti che evitano un divario esagerato fra ciò che dicono e ciò che fanno.

Mi spiego. Avete due metodi per tenere le vostre opinioni in linea con le vostre azioni.
  1. Farvi le opinioni, poi adeguare le azioni.
  2. Agire, poi capire a quali opinioni vi state adeguando.
Il secondo metodo è più comodo. L’unico ostacolo è trovare opinioni presentabili che siano in armonia con azioni che, parlando in generale, potrebbero essere squallide. Tuttavia, poiché anche le azioni peggiori hanno sempre qualche effetto buono, sia pure marginale, ottenete l’opinione desiderata mettendolo in evidenza. Per esempio, se siete un capo che gode ad assegnare compiti ingrati al Fantozzi di turno, gli permettete di mostrare fedeltà all’azienda se li esegue. Potrete dire: “Secondo me, è importantissimo che un capo dia ai sottoposti l’occasione di mettersi in luce”.

Un’opinione che offre a milioni di ipocriti il destro di coprire le loro vere motivazioni avrà successo. Sposandola, gli ipocriti acquisteranno il diritto a vantarsi che fanno ciò che dicono, il che conferisce loro un’aura di dirittura morale che li aiuta a raccogliere il favore degli ingenui. Potete riconoscere questo genere di opinioni da alcuni indizi.

Il primo è che il sostenitore dell’opinione manifesti una foga che il tema apparente non merita. In Italia ci sono cittadini di pochi studi che inneggiano al federalismo, che è un metodo di ripartizione dei poteri di spesa e prelievo fiscale fra i livelli dello Stato. C’è un dibattito scientifico interessante sull’efficienza relativa del federalismo e del centralismo, ma dubito che i cittadini in questione ne siano appassionati. Chi conosce la politica italiana sa che i “Viva il federalismo!” rimpiazzano più sinceri “Via i rumeni da casa nostra!” o “Vaffanculo il governo e le tasse!”.

Il secondo indizio è che il sostenitore dia per scontato che tocchi all’avversario provare che l’opinione è falsa; se non riesce a produrre obiezioni valide, il sostenitore si dichiara vittorioso anche se non ha mai esibito prove a favore. Questo stile di ragionamento è insensato se ci interessa la verità dell’opinione, perché in questo caso ci preoccupiamo sia degli argomenti a favore sia di quelli contro, ma è sensatissimo se l’opinione poggia su motivi nascosti che non vogliamo argomentare. Secondo Bertrand Russell, questo stile di ragionamento è endemico proprio in filosofia:
"Ciascun filosofo, oltre al sistema formale che offre al mondo, ne ha un altro più semplice, di cui può non accorgersi affatto. Se invece se ne rende conto, probabilmente si rende conto anche che questo sistema non va affatto; allora lo nasconde ed esibisce qualcosa di più sofisticato, cui egli crede perché è analogo al suo sistema autentico [...]. La sofisticazione consiste nel respingere le confutazioni. Ma questo solo non darebbe mai un risultato positivo: dimostrerebbe, al massimo, che una teoria può esser vera, non che deve esserlo. Il risultato positivo, per quanto poco possa comprenderlo, è dovuto ai suoi preconcetti intellettuali".
Un terzo indizio è che il sostenitore non abbia interessi personali apparenti nella faccenda. Questo indizio è tipico delle battaglie ideologiche, che sono quasi sempre ingaggiate da avvocati dei diritti altrui. Nei tumulti politici italiani degli anni Settanta, i difensori più pugnaci degli operai erano studenti, professori, giornalisti e altra gente che non lavorava in fabbrica. Le sostenitrici più ostinate della libertà ad abortire sono sempre donne colte, benestanti, senz’altro capaci di evitare le gravidanze indesiderate. Alcune sono in menopausa. A volte queste sostenitrici si accorgono che l’estraneità personale al problema indebolisce la loro posizione, e allora si appellano al bene “delle nostre figlie”, che però vi immaginate a loro volta colte e benestanti.

E gli oppositori del diritto ad abortire? È frequente siano uomini. O preti, cui mancano persino le figlie. O eroine dei diritti dei “nascituri”: feti astratti, o feti nel ventre di altre donne.

Ancora, assistete a cortei di contestatori no-global che indossano scarpe americane fabbricate in Cina, a scioperi “a difesa della scuola” di studenti che non aprono un libro, a risse in TV sul matrimonio dei gay fra un intellettuale eterosessuale a favore e un intellettuale eterosessuale contro.

È l’intransigenza di questi portabandiera a suggerire che le loro opinioni siano ipocrite. Quando abbiamo guai personali siamo flessibili: esaminiamo tutti i lati della faccenda, accettiamo compromessi diplomatici, ci curiamo più di risolvere la grana che di rispettare i princìpi con rigore. Nessuno è ideologico con sé stesso. Ci irrigidiamo solo quando ci occupiamo di cose che non ci toccano da vicino: le donne incinte, il matrimonio dei gay, la globalizzazione del mercati. Non lo faremmo senza qualche motivo segreto, dalla paura del sesso alla vanità di dare spettacolo in TV.

Non voglio svalutare il dibattito delle idee, ciò che sarebbe stupido da parte di uno che tiene un blog. I motivi segreti non impediscono a un’opinione di essere vera (quando lo è). Di fatto molti concetti utili per l’umanità sono nati da gruppi e individui che speravano di trarne vantaggio. Il principio di tolleranza fu concepito dagli illuministi, che erano scrittori, la categoria che più poteva approfittare della libertà di parola. La democrazia fu proposta da borghesi del Settecento che prevedevano che i nobili e i preti avrebbero perso le elezioni. Il pacifismo fu una battaglia dei socialisti dell’Ottocento, che sapevano che le vene delle classi lavoratrici fornivano gran parte del sangue versato nelle guerre, e poi di Gandhi, che voleva liberare l’India dagli inglesi ma non disponeva di truppe. I grandi princìpi sono spesso la scoperta di ragioni generali mentre tentiamo di fare i nostri interessi.

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martedì 27 luglio 2010

Credenze e opinioni

Il filosofo Daniel Dennett distingue le convinzioni umane in “credenze” ed “opinioni”. Le credenze sono disposizioni ad agire o, se preferite, sono i contenuti impliciti in queste disposizioni. Se vedete che la vostra tartaruga sta per cadere dal tavolo, e vi allungate a fermarla perché non si faccia male, il vostro gesto implica la credenza che “le tartarughe non volano”. Questa credenza è pre-riflessiva, perché non avete bisogno di pensarla per agire. Anzi, può darsi che oggi sia la prima volta che vi fermate a riflettere che le tartarughe non volano, anche se è certo che lo credevate prima di aprire questo libro.

Le opinioni sono enunciati che siamo convinti che siano veri. Alcune opinioni non sono che credenze promosse all’espressione verbale. Se io dico “Le tartarughe volano?” e voi “No, le tartarughe non volano!” aggiungete alla credenza un’opinione.

Invece, altre opinioni sono orfane delle credenze corrispondenti. A volte la credenza manca perché è umanamente impossibile da produrre. Siamo convinti che “la luce viaggia a 299.792 km al secondo” perché leggiamo l’enunciato in tutti i manuali di fisica e lo prendiamo per vero. Tuttavia, il nostro comportamento implica al massimo che la “luce è molto veloce” – per esempio, non ci attendiamo ritardi visibili fra la lampada che si accende e l’arrivo della luce sulla scrivania. La ragione è che, a parte Nembo Kid, non abbiamo reazioni tanto rapide da pareggiare la velocità della luce.

Altre volte la credenza è alla nostra portata fisica ma l’opinione, sia pure certissima, è incapace di ispirarla. I medici ci possono convincere che “troppi dolci fanno male alla salute” senza intaccare la nostra disposizione imperiosa a ingollare qualsiasi cioccolatino ci capiti davanti. La dieta è un’opinione, il cibo una credenza.

Ancora, può capitare che certe emozioni ci facciano sposare un’opinione e altre spronino le credenze in direzione opposta. Un sentimento di deferenza per il valore della vita può convincerci che “la pena di morte è sempre sbagliata” ma, davanti a un crimine immondo, possiamo provare il desiderio rabbioso di strangolare il colpevole. Questa reazione implica che crediamo che certi crimini meritino la morte, l’opposto dell’opinione che sosteniamo.

Le credenze sono relazioni fra noi e il mondo; le opinioni sono relazioni fra noi e i concetti. Per definizione, le credenze sono operative 24 ore su 24, in attesa che un evento inneschi la disposizione ad agire. Le opinioni, invece, diventano azioni solo se sconfiggono i nostri interessi egoistici, le nostre eventuali credenze opposte e gli impulsi più vari che ci attraversano la testa e il corpo. Spesso le opinioni soccombono: abbiamo la certezza intellettuale che al mattino dobbiamo alzarci appena suona la sveglia e rimaniamo a letto. Il trionfo della credenza che dormire è bello.

È possibile che la condotta di Voltaire verso Rousseau nascesse dal fatto che giudicava la tolleranza una virtù (opinione) ma difettava della disposizione a tollerare (credenza). Talvolta l’opinione trovava strada libera, spingendo Voltaire a difendere gli scrittori perseguitati e le vittime del fanatismo. Erano le circostanze dove Voltaire non aveva interessi personali in gioco, e nessun impulso naturale a unirsi alle persecuzioni. Nel caso di Rousseau, l’opinione trovò la strada sbarrata dal furore contro il rivale.

Gli ipocriti puri hanno opinioni vuote, senza alcuna disposizione ad agire che non sia il proclamare quelle opinioni con gusto. Gli ipocriti episodici hanno opinioni efficaci ma conservano disposizioni ad agire nella direzione opposta. Di solito, le disposizioni vincono nelle vicende personali, dove abbiamo interessi diretti ed impulsi esuberanti. Voltaire era convinto che il furore non fosse una buona ragione per perseguitare qualcuno ma il suo furore contro Rousseau gli riusciva più persuasivo. La madre antiabortista era convinta che l’aborto fosse ingiustificabile, ma per sua figlia trovava una giustificazione. Foley era convinto che i valori della famiglia fossero assoluti, ma quando vedeva un bel giovane gli veniva di fare un’eccezione.

Comunque, gli ipocriti episodici sono ipocriti. Se non riusciamo ad applicare un principio nella nostra vita non abbiamo titolo a chiedere che gli altri lo applichino nella loro. In una sola ipotesi Voltaire, la madre antiabortista e Foley avrebbero meritato di essere derubricati a persone sincere che sbagliano ogni tanto, quella in cui avessero espresso le loro opinioni per ciò che erano: giudizi intellettuali. Al contrario, fingevano di averle nelle viscere. La madre antiabortista si atteggiava a paladina dei feti. Foley era “disgustato” dall’omosessualità. Quanto a Voltaire, non si limitava a dire che il mondo sarebbe più felice se tutti fossimo tolleranti, ma si dichiarava tollerante come persona. Lo vedete nella frase “… darei la vita perché tu possa continuare a scrivere” e dove dice che si sarebbe “sentito colpevole” a opprimere uno scrittore. C’è anche una lettera del 1766 a Hume dove Voltaire, oltre a negare di avere avuto una parte nelle disgrazie ginevrine di Rousseau, dice di “detestare troppo i persecutori per esserlo”.

L’ipocrita attribuisce al suo carattere ciò che al massimo è un’opinione che ha deciso di seguire (dico “al massimo” perché negli ipocriti puri l’opinione è solo declamatoria). Anche quando mette in pratica l’opinione, l’ipocrita ascrive a sue invincibili nobili disposizioni ciò che invece è soggetto al caso. L’azione può essere buona, ma le parole restano fasulle. L’ipocrisia è una malattia del discorso, non dell’azione.

Una conseguenza è che l’ipocrita sarà un inaffidabile più che un traditore. Il fatto che non creda alle opinioni che professa non implica che vi verrà meno, ma che la sua condotta dipenderà dalle situazioni. Scopriamo che è un ipocrita quando mutano, e se non mutano può conservare la stima della società per tutta la vita.

Un’altra conseguenza è che ci sono solo due vie al non essere ipocriti.
  1. Tacere: non enunciare princìpi, non parlare bene di se stessi, non giudicare gli altri, in generale esprimere opinioni solo in materie moralmente fredde (velocità della luce, tartarughe, ecc.).
  2. Parlare, ma riconoscere che le nostre opinioni nascono dalla mente e come tutti fatichiamo a seguirle. Ciò ci impone di argomentare le opinioni, invece di proclamarle con sentimento, dimostrando che abbiamo lavorato per controllare se sono vere.
Sono vie poco battute perché il silenzio, i discorsi distaccati e le argomentazioni annoiano il prossimo. Ciò aiuta a spiegare perché gli ipocriti, che sono chiacchieroni, moralmente caldi e in apparenza con il cuore in mano siano tanto amati.

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martedì 20 luglio 2010

Credulità e dissonanza cognitiva

Molti studi hanno portato alla luce una nostra resistenza ad accettare informazioni discordanti. Se due segnali vanno in direzioni opposte, sentiamo un disagio che gli psicologi chiamano “dissonanza cognitiva”, dal quale usciamo scartando uno dei due segnali. Il risultato è una visione assolutista dove c’è solo il segnale residuo.

Un esempio è fornito dalle nostre reazioni al rischio. Alcune ricerche mostrano che i residenti di un paese a valle di una diga sono certi che il crollo sia impossibile: accolgono come un oracolo tutte le rassicurazioni dei tecnici (pagati dai proprietari dell’opera) e attribuiscono i tragici crolli delle dighe del passato a guasti irripetibili. In realtà c’è sempre il rischio che una diga crolli, così come c’è il rischio che l’aereo su cui state volando cada, o che la corda dell’ascensore in cui siete entrati si spezzi. Però odiamo soffermarci su questi pensieri. Così, o cancelliamo il rischio dalla mente, e ci comportiamo come fossimo invulnerabili alla sfortuna, o cancelliamo le rassicurazioni, e ingigantiamo il rischio fino a renderlo intollerabile. Avete così i paurosi che non prendono l’aereo, che salgono otto piani di scale a piedi pur di evitare l’ascensore, o che abbandonano il paese dove hanno costruito la diga.

Un secondo esempio è il “belief overkill”, la nostra tendenza a credere che tutti i valori siano in accordo. Un ambientalista che chiede fonti di energia pulite tenderà a pensare che siano anche meno costose di quelle tradizionali. Un oppositore alla pena di morte tenderà a convincersi che, oltre che immorale, sia anche inefficace come deterrente. Il belief overkill è un rifiuto dei dilemmi, e in particolare della possibilità che ciò che è ingiusto possa funzionare, o ciò che è giusto fallire. Una cosa ha tutti gli attributi positivi o tutti gli attributi negativi. I valori cantano in coro.

Nel 2003 il cardinale Alfonso Lopez Trujillo disse alla BBC che il virus dell’AIDS è piccolo e può attraversare la parete del preservativo. È escluso che Trujillo lo abbia letto in qualche ricerca seria. L’unico rischio è che il preservativo si rompa; altrimenti, il lattice di cui è fatto è impermeabile sia agli spermatozoi sia ai virus. È probabile che il cardinale sia stato vittima di belief overkill (il preservativo è immorale, quindi non funziona), accompagnato da un’ignoranza coltivata degli studi medici che avrebbero potuto aprirgli gli occhi.

All’epoca, Trujillo guidava il Pontificio Consiglio per la Famiglia, l’organismo del Vaticano che gestisce i programmi per l’educazione sessuale dei giovani e i corsi di preparazione al matrimonio.

Un terzo esempio è la “sospensione dell’incredulità”, la facoltà che secondo i teorici della letteratura ci permette di fruire i romanzi: il lettore sa che i personaggi sono immaginari, eppure gode e soffre con loro come fossero reali. Anche il cinema e il teatro ci suscitano la stessa reazione, tanto che al termine di un film con un finale aperto discutiamo con i nostri compagni di visione di cosa accadrà ai personaggi in seguito. Una discussione irrazionale, dato che i personaggi non hanno vita fuori dall’opera.

A volte l’incredulità permane: l’opera è malfatta e non riusciamo a concederle realtà. Se è un romanzo, notiamo la scelta delle parole, la costruzione dei dialoghi, la tecnica narrativa e tutti gli artifici dell’autore che avrebbero dovuto restare invisibili. Se è un film, ogni scena diventa ridicola e iniziamo a dire battute sarcastiche sugli attori e il regista. Notate la polarizzazione: o una storia ci coinvolge o ci pare una becera finzione meccanica.

La credulità verso l’ipocrisia ha qualcosa di tutti e tre questi esempi. Uno, c’è sempre il rischio che una persona non sia chi dice di essere. A volte sfoderiamo il principio di precauzione e teniamo quella persona al largo; altre volte cancelliamo il rischio dalla mente e ci lasciamo imbrogliare.

Due, il buon ipocrita ha l’abilità di presentarsi bene: sorride, è amichevole, ha un aspetto tranquillizzante. Possiamo credere che sia anche onesto per belief overkill.

Tre, l’ipocrisia è una recita e può farci sospendere l’incredulità. Una parte del nostro cervello sa che stiamo assistendo a una messa in scena, un’altra l’accetta come reale. Se a teatro cercaste di convincere i vicini di posto che l’attore non potrà mai entrare nel castello (“è un fondale di cartapesta!”) li irritereste, e l’irritazione nasce dal fatto che volete indurli a un’inutile dissonanza cognitiva. La stessa irritazione manifestano i cattolici se criticate il papa che predica contro il superfluo, notando che ha in testa un ermellino.

Inoltre l’ipocrisia polarizza, proprio come la dissonanza cognitiva. L’ipocrita è lodato finché è creduto e insultato quando cade in disgrazia. È adorato dai compagni e detestato dai rivali, i quali a loro volta adoreranno qualche ipocrita detestato dai primi. Pensate alle campagne elettorali, che sono gare di ipocrisia fra i partiti, dove ogni militante si scandalizza delle promesse irrealistiche degli avversari, e difende come il Piave le promesse irrealistiche dei suoi candidati.

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giovedì 15 luglio 2010

Scene di vita



San Firmino (Spagna). L'ammazzatore Manuel Jesus Cid, meglio noto come "El Cid", si vanta di avere atterrato la sua vittima durante la classica festa estiva locale. Il toro, che sputa sangue dalla bocca, morirà poco dopo.
Foto di Vincent West (Reuters).