martedì 22 giugno 2010

Chiudete qualcuno in una stanza a confrontare teorie e fatti, e ne uscirà con un motore a scoppio

Nell’autunno del 2006 la stampa americana pubblicò una serie di mail scritte dal senatore Mark Foley, dove tentava di sedurre alcuni “congressional page” – che sono studenti delle scuole superiori che lavorano in stage al Congresso. In seguito emerse che Foley aveva avuto relazioni sessuali con più di un “paggio”, anche se solo dopo il termine del loro programma.

Lo scandalo fu terribile, sia perché i destinatari delle mail erano minorenni, sia perché Foley apparteneva ai Repubblicani, il partito conservatore americano, difensore furibondo della famiglia tradizionale basata su un uomo e una donna. In passato Foley aveva dichiarato a un intervistatore, che gli aveva chiesto se fosse omosessuale (la voce girava), che trovava l’ipotesi “disgustosa”. Dopo la pubblicazioni delle mail, e tenui tentativi di giustificarsi, Foley si dimise da senatore.

Episodi simili sorprendono sempre. Viene da dire a Foley: se eri un omosessuale, perché militavi in un partito che disprezza le persone come te? Oppure: se credevi nella famiglia tradizionale, perché corteggiavi giovani maschietti?

La fonte della sorpresa è la facilità con cui l’ipocrita riesce a tenere insieme idee e azioni in conflitto fra loro. Sa cosa sta facendo, eppure lo fa. Dice una vecchia battuta che l’ipocrita “è il tipo di politico che può abbattere una sequoia, salire sul tronco e fare un discorso a favore della conservazione della natura”. Mentre per mentire occorre attenzione, l’ipocrisia ha qualcosa di spontaneo.

Teorie costose e non costose

Avrete notato che il prossimo fatica a cambiare idea. Se gli provate che i suoi ragionamenti sono illogici, o gli squadernate davanti i fatti che gli danno torto, non dice “che sciocco, hai ragione” ma vi guarda in silenzio come se pensasse che l’idiota siate voi.

Questa rigidità di pensiero affligge non solo gli ignoranti, ma anche gli intellettuali e gli scienziati. La storia è piena di teorie false che sono rimaste scritte nel marmo per secoli nonostante si potesse accertare la loro falsità con poca fatica. Un caso istruttivo è la teoria della caduta dei pesi formulata da Aristotele nel IV secolo a.C., secondo la quale un corpo cade con una velocità proporzionale al peso. Corpo più pesante, caduta più rapida: suona bene, tanto che diciamo ancora “è caduto come un piombo” di chi cade in modo repentino.

L’esperimento necessario per accertare che questa teoria è falsa richiede non più di un pomeriggio di lavoro e nessuna tecnologia moderna. “Proporzionale al peso” implica che se un masso A è dieci volte più pesante di un masso B, e fate cadere i due massi contemporaneamente, il masso A tocca terra quando il masso B ha percorso solo un decimo del tragitto. Una differenza vistosa. Un dotto interessato a controllare la teoria di Aristotele avrebbe potuto ordinare a uno schiavo di portare due massi in cima a una rupe e buttarli giù insieme. Rimasto comodamente a valle, il dotto avrebbe potuto vedere a occhio nudo se Aristotele aveva ragione o no.

Per circa novecento anni tutti i dotti insegnarono nelle scuole la teoria aristotelica; nessuno fece l’esperimento.

A rompere il ghiaccio fu Giovanni Filopono, un matematico alessandrino del VI secolo d.C. In un commento alla Fisica di Aristotele, Filopono descrisse un esperimento di caduta pesi in cui aveva osservato che il peso leggero non faceva alcun ritardo. I dotti lessero, annotarono la posizione di Filopono e continuarono a insegnare la teoria di Aristotele.

Non ci furono esperimenti per altri settecento anni.

Nel 1300, il filosofo Thomas Bradwardine e i suoi colleghi di Oxford tentarono di riaprire la questione, avanzando una teoria del moto in cui la velocità di caduta non dipendeva dal peso. Non è chiaro se Bradwardine e gli oxfordiani abbiano condotto esperimenti sistematici, però sappiamo ciò che fecero gli altri dotti: seguitarono a ripetere la teoria tradizionale.

Ma Aristotele aveva i secoli contati. Nel 1500 si diffuse nelle università europee il concetto rivoluzionario che per scoprire le leggi di natura occorrono prove e misurazioni. Erano i primi vagiti della scienza moderna. La teoria aristotelica della caduta dei pesi fu tra le prime a finire sotto il tiro degli sperimentatori, proprio perché facilissima da controllare. All’improvviso, nelle università europee fu tutto un cadere di massi e sfere. Ricorderete l’episodio di Galileo Galilei che, radunato un gruppo di aristotelici sotto la Torre di Pisa, fece cadere dalla vetta due sfere di peso diverso. Gli aristotelici videro che le sfere toccavano terra nello stesso istante, o quasi (c’è un divario dovuto alla resistenza dell’aria).

Gli storici moderni sostengono che l’episodio è apocrifo ma, anche se lo fosse, è in linea col carattere di Galileo, che aveva una vena per le confutazioni spettacolari degli errori altrui. Ciò non gli creò mai un clima favorevole attorno. Sempre a Pisa, Galileo fece un esperimento in Duomo per mostrare che ogni oscillazione di un pendolo ha la stessa durata, nonostante l’illusione che le durate si abbrevino man mano che il pendolo si arresta. Poi puntò un cannocchiale verso la Luna e svelò che era piena di valli e crateri, a dispetto di Aristotele che aveva scritto che i corpi celesti sono lisci. Non contento, sostenne che i dati astronomici suggerivano che fosse la Terra a girare intorno al Sole, e non l’opposto come diceva la Bibbia. Alla fine Galileo fu incarcerato.

Nel 1600, con Isaac Newton e la scoperta della gravità, la teoria aristotelica della caduta dei pesi entrò senza rumore nelle curiosità storiche.

Questa teoria poté durare tanto a lungo perché sposarla non era costoso. Il dotto antico che la insegnava non aveva a soffrire per il suo errore. Intanto, è rarissimo che i fatti che smentiscono questa teoria si presentino da sé. Quante volte vi capita di vedere pesi che cadono in coppia? Potete giusto imbattervi in due mele che si staccano dal ramo nello stesso istante ma, siccome non c’è grande differenza di peso fra le mele, non vi stupisce che arrivino a terra insieme. Perciò, quando il dotto diceva “corpo più pesante, caduta più rapida” non incontrava mai ascoltatori che avessero notato il contrario e gli dessero dello sciocco, ciò che già sarebbe stata una conseguenza dolorosa.

Inoltre, la teoria aristotelica mancava di applicazioni ingegneristiche, perché non c’erano oggetti utili dove si sfruttasse la caduta dei pesi. Al massimo un principe poteva chiedere al dotto di disegnargli una catapulta, ma anche in questo caso l’importante era che lanciasse il proiettile lontano, non quanto fosse veloce. Le uniche occasioni per vedere oggetti di pesi diversi in caduta libera erano gli assedi ai castelli. Un soldato che risaliva le mura avrebbe potuto accorgersi che le pietre, grandi e piccole, rovesciate dai difensori sui merli scendevano verso di lui alla medesima velocità. Immagino non fosse ciò che ricordava dell’episodio.

Quando invece una teoria rischia di danneggiarci abbiamo cura di esaminare i fatti. A riprova, gli antichi fecero conquiste precoci in tutti i campi utili del sapere. Prendete gli edifici. Un architetto antico sapeva che una teoria falsa sugli archi lo avrebbe portato a progettare ponti che crollavano al passaggio di un carro pesante. Una teoria falsa sulle volte gli avrebbe fatto disegnare case dove il pavimento si apriva sotto i piedi del proprietario salito al primo piano. Perciò, l’architetto era incentivato a fare prove scrupolose. Risultato: le costruzioni antiche erano solidissime. Quando le studiamo, ci accorgiamo che gli architetti avevano imparato a calcolare le spinte laterali degli archi e delle volte con precisione meravigliosa. Il nostro stupore per gli acquedotti romani, le piramidi d’Egitto, le mura a secco dei Maya, le stesse cattedrali gotiche medievali è tale che qualche fantarcheologo dice che “sono edifici troppo avanzati per le civiltà che li hanno prodotti”, quasi fossero l’opera di una mano aliena. In realtà, questi edifici dimostrano solo quanto un architetto può imparare per semplice prova ed errore quando l’errore lo espone alle reazioni inferocite dei committenti.

L’amore per le nostre opinioni che non ci causano costi sembra un tratto innato del nostro carattere. È come se la natura si fosse trovata a scegliere se donarci l’uno o l’altro di questi due schemi di ragionamento:

Schema 1.
“Uhm, la teoria X suona bene. Ora controllerò tutti i fatti rilevanti. Se confermano X, allora: X. In seguito, studierò qualunque fatto nuovo si presenti e correggerò X dove necessario”.

Schema 2.
“Uhm, la teoria X suona bene. X!”.
Il giorno dopo: “X!”.
Due giorni dopo: “X!”.
Tre giorni dopo: “X!”.
Ecc.
Dopo un incidente doloroso: “Non X”.

Ha scelto lo Schema 2, ed è probabile che sia stata saggia. Se i nostri antenati delle savane avessero avuto lo Schema 1, e quindi l’istinto dello scienziato che vuole sindacare ogni teoria, avrebbero sprecato energie preziose trasportando massi in cima alle rupi per scoprire verità che all’epoca non servivano a niente.

Sul piano evolutivo, le uniche convinzioni meritevoli di un’analisi empirica erano quelle pericolose per la sopravvivenza. Se un antenato sviluppava la teoria errata che i lupi di notte dormono, occorreva solo che fosse capace di abbandonarla quando, durante una passeggiata al chiaro di luna, si imbatteva in occhi luminosi che lo scrutavano fra le fronde. Lo Schema 2 ci conferisce questa capacità. Tutti abbiamo sperimentato come la mente si rischiari dopo una cattiva sorpresa.

La rivoluzione della scienza moderna fu di passare allo Schema 1. Gli scienziati si misero a fare per metodo ciò che nessuno faceva per carattere, occuparsi delle evidenze innocue. Nel breve termine questo metodo è faticoso, ma nel lungo termine produce teorie vere che si tramutano in applicazioni pratiche. La scienza moderna fu la scoperta che se chiudete una persona meticolosa in una stanza a confrontare teorie e fatti, a un certo punto esce con un motore a scoppio.

L'inconsapevolezza di sé

Se occuparsi delle evidenze innocue non fosse tanto innaturale, la scienza moderna non sarebbe nata tardi, dopo millenni di civiltà per altri versi ammirevole. Gli antichi innalzavano edifici complessi, attraversavano i mari, scrivevano poemi commoventi, però trascuravano i fatti ogni volta che potevano.

Noi moderni continuiamo a farlo. La scienza è un metodo di ragionamento che adottiamo in ambiti speciali, ma per il resto il nostro carattere è ancora quello degli antenati delle savane. Gli scienziati amano attribuirsi una passione infuocata per la verità oggettiva, ma appena si staccano dalla postazione di lavoro lo Schema 2 torna a invaderli e suscita in loro fantasie tenaci sulla moglie che li tradisce e i colleghi che complottano in università. Al di fuori della ricerca, le nostre abitudini sono queste:

  1. ci creiamo convinzioni a naso;
  2. evitiamo di controllare che rispettino i fatti;
  3. se qualche rompiscatole ci annuncia fatti a sfavore ci irrigidiamo, quasi ci avesse attaccato sul piano personale;
  4. se i fatti a sfavore sono grossi, e il rompiscatole li piazza proprio davanti ai nostri occhi, rimuginiamo su come negarli;
  5. se, dopo avere resistito ai fatti per anni, questi fatti diventano dolorosi abbandoniamo le nostre convinzioni;
  6. subito dopo, ci mettiamo a irridere chi le mantiene.

L’ipocrita è un essere umano normale che si è fatto una teoria dove figura come campione del bene. Quando parla di valori, si protesta nostro amico, si dichiara animato da sentimenti puri, è convinto di essere nel vero. La teoria gli piace, quindi evita di controllare se le sue azioni reali la confermino.

A volte queste azioni sono del tutto invisibili all’ipocrita. È il politico che abbatte la sequoia per tenere un comizio a difesa della natura.

Altre volte l’ipocrita si dimostra informato delle sue azioni ma le razionalizza. È la madre antiabortista che aiuta la figlia ad abortire ma invoca la “situazione” - come se ogni madre che abortisce non ne avesse una. È Voltaire che esorta i ginevrini a perseguitare uno scrittore perché la “blasfemia” e la “sedizione” non meritano tutela – come se questi non fossero gli argomenti eterni degli intolleranti religiosi e politici.

L’unico problema dell’ipocrita è proteggere la sua teoria di sé da fatti dolorosi, ed è per questo che nasconde le sue malefatte. Non se ne vergogna, ma intuisce che il pubblico, come dire, potrebbe fraintenderle. Se le malefatte vengono a galla, l’ipocrita reagisce in funzione del numero dei critici. Se sono pochi, o uno solo, l’ipocrita resiste, come fece Voltaire quando Rousseau lo accusò di fare lega con i devoti notabili di Ginevra. Se l’indignazione è generale, come capitò al senatore Foley, l’ipocrita prende coscienza di sé e si avvede che le sue azioni sono indifendibili. Dice “solo ora mi rendo conto”, e in ciò è sincero: la punizione rende dolorosi, e quindi all’improvviso visibili, i fatti che erano sempre stati sotto i suoi occhi.

(Parti precedenti / Continua)

4 commenti:

  1. permettimi di intervenire ancora una volta, a costo di sembrare noiosa, ma.. mi chiedo..
    che cosa induce un ipocrita a voler figurarsi come campione del bene ? quale moto dell'animo ? secondo me è per orgoglio che lo fa.
    senza orgoglio gran parte dell'ipocrisia sarebbe inutile. rimarrebbe sempre l'ipocrisia dei furbacchioni, ma almeno quelli dotati di un minimo di onestà intellettuale riconoscerebbero la sua assurdità.
    perciò secondo il mio modestissimo parere tutto il tuo ragionamento è valido, validissimo, tranne nella parte in cui incolpa di ogni male l'ipocrisia, che non è che la punta dell'iceberg di un difetto assai maggiore: l'orgoglio.

    altra piccola considerazione: non dovuto a ipocrisia, ma di idiozia, l'atteggiamento di coloro che, non coinvolti personalmente in una vicenza che per alcuni è dolorosa, si permettono opinioni e giudizi che vanno a influenzare il clima generale, quello stesso clima che tu hai scritto essere alla base della possibilità di correzione/ammenda da parte di chi sta sbagliando. in altre parole: terze persone ignoranti e saccenti si permettono di dire la propria in casi in cui non sono direttamente coinvolte e di cui non conoscono i particolari, e nemmeno l'essenza a volte, e facendo questo fanno si che chi sta sbagliando non si senta sufficientemente criticato e non giunga mai a ravverersi, a cambiare la propria teoria..
    che tristezza..
    secondo me anche questa idiozia discende da una sopravvalutazione delle proprie opinioni, dovuta in buona parte ad orgoglio.
    sapendo che l'umanità è fatta in gran parte così, vien voglia di scappare nel deserto a fare l'eremita

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  2. Adesso ho poco tempo ma tornerò sopra le tue osservazioni. Per ora posso solo dirti che da quando hai iniziato questo attacco all'orgoglio un nome mi lampeggia nella mente: Ellsworth Toohey! Ellsworth Toohey! Ellsworth Toohey!
    Qui trovi spiegazioni. Scusa l'inglese, non ho trovato un profilo decente in italiano.

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  3. continua il Voltaire bashing, eh?
    Se leggeva il Tartuffe, magari faceva più attenzione.
    Ho letto solo Atlas Shrugged (ok, dei pezzi...), ma penso anch'io che la che la Rand non fosse ipocrita.

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  4. Ealbeth: io intendo l'orgoglio come "conservazione della stima di sé (meglio se facendo il necessario per meritarsela)", mentre forse tu la intendi come "amore di sé", una disposizione che io di solito chiamo "vanità". Accettando la nozione tua, riconosco volentieri che la gente ama attribuirsi virtù che non ha per orgoglio.
    Mi ha poi colpito il tuo timore che "chi sta sbagliando non si senta sufficientemente criticato e non giunga mai a ravvedersi, a cambiare la propria teoria..", che trovo sinistro ma infondato, perché la gente è assai lesta a sottomettersi alle opinioni prevalenti, anche se non sono totalitarie. Il problema di cui parlo io è che la gente o, detto meglio, tutti noi, fatichiamo a sottometterci ai fatti.
    Oca S.: la Rand si batté onestamente per le sue idee, come tutto sommato fece anche Voltaire. Ciò che mi turba è quanto rimaniamo al di sotto delle idee che amiamo, nella nostra vita personale. Atlas Shrugged mi sa che l'avrai letto come Woody Allen ha letto Guerra e Pace ("Parla della Russia").

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